Cina. Le contraddizioni di un G7 senza Pechino
Andrea Fais
XiJinpingVisitsBerlin6f4yw9C5ya6l(ASI) Le recenti dichiarazioni di Angela Merkel in merito al destino dell'Europa non sono passate sotto silenzio e hanno innescato un vespaio di reazioni tra le due sponde dell'Atlantico, specie perché pronunciate a margine di un G7 siciliano apparentemente tranquillo.
«Ormai è impossibile fare affidamento sugli altri», ha detto la cancelliera tedesca, con un chiaro riferimento agli Stati Uniti, durante un comizio a Monaco di Baviera, aggiungendo che è giunta l'ora che «l'Europa riprenda in mano il proprio destino». Parole del genere non possono essere frutto della sola divergenza rispetto alla questione della lotta ai cambiamenti climatici, ma nemmeno del quadriennio che attende Donald Trump nel suo primo mandato presidenziale. Malgrado i tentativi di ricucitura e riconciliazione portati avanti da alcuni capi di governo europei - tra cui lo stesso Paolo Gentiloni - dopo il suo ingresso alla Casa Bianca, Berlino e Bruxelles non hanno certamente mai fatto mistero della loro diffidenza verso il nuovo presidente degli Stati Uniti.
 
Strappo già in atto prima di Trump
Lo strappo col mondo anglofono, però, era cominciato circa un anno fa, quando il referendum indetto nel Regno Unito aveva sancito la volontà della maggioranza dei cittadini britannici di uscire dall'Unione Europea. Alla fine di agosto, poi, Sigmar Gabriel, all'epoca soltanto vicecancelliere, oggi anche ministro degli Esteri tedesco, aveva pubblicamente annunciato il definitivo fallimento del TTIP, ovvero il trattato economico transatlantico che avrebbe dovuto integrare il mercato statunitense e quello europeo. Sebbene Obama fosse ormai prossimo ad avviarsi nel periodo della cosiddetta anatra zoppa, gran parte del panorama mediatico dava quasi per certa la vittoria di Hillary Clinton e, dunque, l'affermazione di una linea di sostanziale continuità con la precedente amministrazione. Eppure, già Berlino non faceva sconti.
Con l'arrivo di Donald Trump, tra Washington e Bruxelles le distanze sembrano dunque essersi soltanto allargate, sull'impronta di divergenze latenti su temi fondamentali quali il commercio mondiale, gli investimenti esteri, la politica monetaria e la stabilità internazionale. In particolare, la Germania pare insoddisfatta dell'approccio chiuso che l'amministrazione Trump, malgrado gli incontri e i viaggi, starebbe mantenendo.
«Abbiamo avuto una comunità democratica in Occidente che è sopravvissuta persino alla Guerra fredda. Trump rischia di distruggere tutto, perché non condivide più quegli storici valori comuni. È questa la cosa più preoccupante. Al G7 non ha detto niente sulla democrazia, sui diritti umani, sulla condivisione dei problemi occidentali». Così si è espresso ieri, nel corso di in un'intervista a Repubblica, lo storico Francis Fukuyama, padre della celebre teoria della fine della storia, nonché firmatario del manifesto del Project for a New American Century, think-tank neoconservatore che, nel pieno degli anni Novanta, cercava di rilanciare il reaganismo del decennio precedente e l'idea di una leadership mondiale americana.
L'America First! di Trump di certo non si tradurrà in un vero e proprio orientamento isolazionista, ma all'ultimo vertice NATO, che ha anticipato il G7 di Taormina, Washington ha ribadito la sua linea di parziale disimpegno, pretendendo un maggior coinvolgimento dagli alleati europei, a cominciare dalle spese militari. Anche in questo, tuttavia, niente di inedito. Già nell'ottobre 2011, l'allora segretario alla Difesa Leon Panetta aveva chiesto all'Europa di fare di più per evitare lo «svuotamento» dell'Alleanza Atlantica, secondo un più generale processo di razionalizzazione e ristrutturazione poi enucleato nel vertice di Chicago del 2012.
Malgrado le narrazioni generaliste tendano a semplificare e polarizzare gli attori e gli orientamenti in gioco, insomma, la strategia di Donald Trump su commercio e difesa, pare seguire, almeno in parte, percorsi già delineati negli ultimi anni, tutt'al più puntellandoli e rendendoli più nitidi.
 
Cina imprescindibile
Indubbiamente, la fase multipolare degli equilibri internazionali, che la leadership cinese va descrivendo ormai da anni, sta entrando nel vivo e generando una prevedibile scollatura del fronte delle potenze occidentali. Di finlandizzazione dell'Europa si parla da decenni, eppure la NATO, malgrado il crollo del Muro di Berlino, prima, e dell'URSS, poi, ha continuato non solo ad esistere ma anche ad espandersi verso Est. Fino al punto in cui i Paesi ex comunisti dell'Europa centro-orientale, intimoriti dalle debolezze strutturali dell'Europa e dal pericolo-terrorismo, hanno congelato i rispettivi percorsi di integrazione europea e ricominciato a guardare alla "nuova" Russia di Putin e alla Cina, con le sole eccezioni delle repubbliche baltiche e, in parte, della Polonia.
In particolare, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Serbia hanno dimostrato di credere fortemente nell'iniziativa cinese Belt and Road, finalizzata a ricostruire in chiave moderna le antiche direttrici della Via della Seta, ritenendo così di poter valorizzare appieno la loro posizione a cavallo tra Europa Occidentale ed Europa Orientale.
Il discorso tenuto a Davos nel gennaio scorso dal presidente cinese Xi Jinping ha sancito universalmente l'indirizzo internazionale di Pechino. Non si è trattato di un elogio acritico della globalizzazione, ma di un'analisi realistica di questo fenomeno storico per promuoverne un nuovo orientamento, basato su temi quali la lotta alla povertà, lo sviluppo, un maggior controllo dei flussi finanziari, la facilitazione del commercio mondiale, gli investimenti, le infrastrutture, l'innovazione, la digitalizzazione, la sostenibilità, la sicurezza, la riforestazione e la riduzione delle emissioni nocive.
L'innovazione e la digitalizzazione, priorità condivise con la leadership tedesca, saranno oggetto di discussione a partire da venerdì, quando il primo ministro Li Keqiang sarà a Berlino proprio per parlare dei punti di contatto tra la strategia Made in China 2025, che dovrà rinnovare la manifattura cinese e sostenere la PMI locale, ed il piano Industria 4.0, pensato dal governo tedesco per sviluppare quel connubio tra logistica e connettività di cui tanto si è parlato e si parlerà ancora, soprattutto in questo 2017 di presidenza tedesca del G20.
La cooperazione economica sino-tedesca è al momento uno dei cardini della politica estera dell'Unione Europea, come testimoniano i dati del Ministero del Commercio di Pechino, che per il solo 2016 ha registrato investimenti cinesi in Germania pari a 2,9 miliardi di dollari ed investimenti tedeschi in Cina pari a 2,71 miliardi. La Cina è in generale il secondo partner commerciale dell'Unione Europea, dopo gli Stati Uniti. Il volume di interscambio commerciale in beni è stato pari a circa 515 miliardi di euro nel 2016, di cui 170 di esportazioni europee verso la Cina e 345 di esportazioni cinesi verso l'UE.
 
L'Europa non sa ancora dialogare
Bruxelles e Pechino si stanno confrontando da molto tempo su un accordo che possa mettere insieme le diverse ragioni in campo e limare le differenze di vedute. La riforma strutturale dell'offerta intrapresa dalla Cina reca con sé una serie di cambiamenti che dovranno trasformare la potenza asiatica in un'economia trainata dagli investimenti e dai consumi interni piuttosto che dall'export, come avvenuto in passato, lasciando alla Germania uno scomodo "scettro" di leader mondiale del surplus commerciale (252,9 miliardi di dollari nel 2016) che, se non sarà ridimensionato al più presto, rischierà di soffocare l'intera Eurozona.
L'UE è ovviamente interessata alla riduzione della sovraccapacità produttiva, in particolare nel settore dell'acciaio, su cui la Cina è impegnata da tempo, e alla riduzione delle emissioni nocive, così come stabilito a Parigi nell'autunno del 2015. L'inedita forza acquisita dal terzo settore - che oggi incide sul PIL cinese per circa il 56% del totale ed il 62% della crescita - sta già modificando anche i rapporti tra Cina e Stati Uniti, con un incremento esponenziale dell'export di servizi, piuttosto che di beni, dagli States verso le coste asiatiche del Pacifico.
Tuttavia non è possibile pensare che tra due dialoganti sia solo uno a venire incontro all'altro. L'Europa, un mercato unico dal futuro ancora molto incerto, non può prendere in mano la leadership globale che gli Stati Uniti stanno lentamente abbandonando, pretendendo di costruire un ordine mondiale dove i tanti attori emergenti continuino a recitare in eterno un ruolo di gregari o addirittura di comparse. Il nuovo asse franco-tedesco, inaugurato con l'elezione di Emmanuel Macron all'Eliseo, va ancora testato in attesa dell'esito delle elezioni federali tedesche, ma in ogni caso non avrà né la forza né la capacità di imporsi sul resto del mondo attraverso un approccio unilaterale, anche qual'ora questo venisse addobbato di buone intenzioni e annunci di apertura.
Continuare a riunire il G7, includendo soltanto un attore asiatico, il Giappone, per altro sempre meno influente sul mondo e sulla regione dell'Asia Orientale, riporta l'Europa indietro di trent'anni nell'illusione di poter assumere decisioni importanti per le sorti dell'intero pianeta... senza tre quarti del pianeta. Angela Merkel, che sarà padrona di casa al prossimo G20 di Amburgo, sa bene che ciò non è più possibile.
 
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

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