Cina-USA. Cosa cambia con Donald Trump su Taiwan?

5829655ac4618817408b460d(ASI) La scorsa settimana il presidente Donald Trump ha avviato i primi colloqui telefonici con l'omologo cinese Xi Jinping, da quando siede sulla poltrona più importante della Casa Bianca. Prima del suo insediamento, Trump non aveva risparmiato sferzanti critiche alla Cina, accusata in particolare di aver creato pesanti squilibri nel commercio mondiale e di aver manipolato più volte la sua valuta a danno delle altre economie.

Questo atteggiamento ostile si era protratto anche dopo l'election day del 9 novembre scorso, sino a sfiorare l'incidente diplomatico quando, a dicembre, il tycoon americano si era intrattenuto per diversi minuti al telefono con la leader taiwanese Tsai Ing-wen. Sebbene fosse stata proprio Tsai a chiamare, presumibilmente per cercare di sondare l'atteggiamento del nuovo inquilino della Casa Bianca, Trump, vistosi attaccato da più parti per la sua gaffe, decise di reagire a testa bassa dapprima lamentando via social il doppio standard della stampa rispetto all'amministrazione uscente di Barack Obama, che negli anni scorsi ha effettivamente ratificato ingenti forniture militari a Taiwan, e successivamente sostenendo di non voler riconoscere la politica di "una sola Cina", base fondante delle relazioni diplomatiche tra Pechino e Washington sin dal 1979.

Se nel quadro delle politiche di gestione dei flussi migratori il presidente americano, alla luce del cosiddetto Muslim Ban, procede dritto per la sua strada senza tentennamenti né ripensamenti, in politica estera ora il suo atteggiamento sembra piuttosto adattarsi progressivamente a quelli che, volente o nolente, sono i rapporti di forza e gli equilibri globali. Stando a quanto comunicato ufficialmente dalla Casa Bianca, la prima telefonata ufficiale con Xi Jinping è stata «estremamente cordiale», soddisfacendo entrambe le parti. In Cina, i principali organi di stampa hanno riservato molto spazio alla notizia, sottolineando in particolare l'intenzione del presidente statunitense di riconoscere la politica di "una sola Cina".

Si è trattato di un passaggio delicato e nient'affatto scontato. Pechino, come altri governi stranieri, probabilmente temeva che l'inesperienza di Trump potesse innescare una rischiosa spirale di tensione che, aggravandosi, si sarebbe facilmente potuta estendere alla sfera militare, come già avvenuto ventuno anni fa, quando Bill Clinton inviò due portaerei nucleari per convincere la Cina a desistere dalle esercitazioni militari che stava conducendo in quei mesi sulle acque dello Stretto di Taiwan.

 

L'ambiguità americana del passato

Attualmente, Taiwan è riconosciuta come Stato indipendente soltanto da 21 Paesi nel mondo, tra cui quasi tutti i Paesi centramericani, il Paraguay e il Vaticano. Secondo il diritto internazionale, dunque, la cosiddetta "Repubblica di Cina" creata a Taiwan nel 1950 dal generale Chiang Kai-shek e dai suoi fedelissimi, in fuga dopo la sconfitta subita nell'ultima fase della guerra civile, non ha alcun fondamento giuridico. Già prima dell'ascesa di Mao Zedong al potere, lo stesso Kuomintang si era spaccato in due fazioni, tra chi sosteneva la politica del Fronte Unito con l'Esercito Popolare di Liberazione (già Armata Rossa Cinese) e chi, invece, anche sulla scorta dell'alleanza con Washington, rifiutava categoricamente qualsiasi apertura ai comunisti.

Ancora oggi, tra i nove partiti rappresentati all'Assemblea Nazionale del Popolo compare il Comitato Rivoluzionario del Kuomintang, presieduto da Wan Exiang, che, al pari del Kuomintang taiwanese, rivendica l'eredità politica di Sun Yat-sen e dei celebri Tre Principi del Popolo. Da parte sua, il Partito Comunista Cinese propone da tempo per Taiwan la soluzione già adottata nei casi di Hong Kong e Macao, ovvero un percorso cinquantennale di graduale riunificazione secondo il modello "un Paese, due sistemi".

Washington, che già nel 1943-'44 decise di voler riassegnare Taiwan alla Cina dopo la fine dell'occupazione giapponese, conosce bene la storia dei territori insulari ed è chiaramente cosciente dell'impraticabilità politica tanto delle posizioni di chi da Taipei rivendica la sovranità su Taiwan e sull'intera Cina continentale, quanto della costruzione di un'artificiale "identità taiwanese" che pretenda di assimilare cinesi Han, come la gran parte dei taiwanesi, agli stereotipi europei o americani. Eppure, nel corso degli ultimi quaranta anni, la Casa Bianca ha mantenuto una linea estremamente ambigua rispetto all'isola. Pur avendo da tempo aderito alla politica di "una sola Cina" tanto da abbandonare persino la dicitura "Repubblica di Cina" per indicarne i territori, gli Stati Uniti non hanno mai smesso di rifornire periodicamente Taiwan di materiale e mezzi militari, di fatto agendo in contrasto non soltanto con gli accordi bilaterali ma anche con la Legge Anti-Secessione del 2005 e con il diritto internazionale.

Dopo la cessazione del Trattato di Muta Difesa USA-Taiwan nel 1979, gli accordi del 17 agosto 1982 impegnarono gli Stati Uniti a ridurre progressivamente le loro forniture militari a Taiwan sino al loro completo azzeramento. Dal 1983 ad oggi, invece, si contano ben 61 consegne in totale, racchiuse in ordini complessivi che hanno registrato vari picchi, soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda, come nel caso dei 150 caccia F-16 nel settembre 1992 (6 miliardi di dollari), dei 200 missili Patriot nel gennaio 1993 (10 miliardi), dei 4 velivoli AEW E2-T nel marzo 1993 (900 milioni), dei 21 elicotteri AH-1W nel luglio 1997 (479 milioni) e dell'aereo P-3C nel settembre 2007 (2,23 miliardi).

Negli ultimi anni, ingente è stata la ratifica del Campidoglio nel settembre 2011 per la fornitura di vari armamenti e mezzi militari in favore di Taiwan per un valore complessivo di 5,85 miliardi di dollari, che comprendevano l’ammodernamento di 145 caccia F-16 A/B, strumentazioni per caccia IDF, F-5 E/F e aerei-cargo C-103H. Sommate a quelle del 2010, le spese statunitensi per l'assistenza militare all'isola superarono quota 12 miliardi di dollari in un solo biennio. Nel dicembre 2015, dopo aver lanciato forti provocazioni al summit APEC di Manila in merito alla situazione nel Mar Cinese Meridionale, Barack Obama autorizzò nuove forniture a Taiwan per un totale di 1,82 miliardi di dollari.

 

Cosa può succedere con Trump?

Con l'affermazione elettorale nel gennaio del 2016 della Coalizione Pan-Verde (centro-sinistra), guidata dal Partito Democratico Progressista, Tsai Ing-wen ha catalizzato il consenso della maggioranza della popolazione, rimasta evidentemente delusa dall'operato della Coalizione Pan-Azzurra (centro-destra), guidata del Kuomintang. Malgrado il grande risalto mediatico riservato alle manifestazioni di protesta di alcune organizzazioni taiwanesi contro lo storico accordo di Singapore del 2015 tra Pechino e Taipei, è stata in realtà la stagnante situazione economica dell'isola ad accrescere il dissenso popolare nei confronti del governo uscente piuttosto che i tentativi di riavvicinamento a Pechino.

Le critiche che alcuni settori della società avevano rivolto all'ex presidente Ma Ying-jeou per la sua linea di apertura e la sintonia politica tra Tsai ed Obama, avevano indotto molti osservatori a ritenere che i nuovi equilibri di potere consolidatisi a Taipei potessero nuovamente gelare le acque che separano le due sponde dello Stretto di Taiwan, spingendo decisamente il territorio insulare verso Washington. L'eventuale vittoria di Hillary Clinton avrebbe senz'altro rafforzato l'intesa con Tsai, anche sfruttando il forte impatto mediatico e propagandistico dell'immagine di due donne-leader per cementare e legittimare la causa indipendentista dell'isola agli occhi della comunità internazionale. Tuttavia, anche dopo la vittoria di Trump, qualcuno a Taiwan si era comunque fregato le mani, ipotizzando che la linea dura mostrata in campagna elettorale potesse tradursi in un ritorno al vecchio internazionalismo repubblicano. Intervistato da La Stampa lo scorso 17 dicembre, Hsu Szu-chien, presidente della Fondazione Taiwanese per la Democrazia, aveva esultato di fronte alle prime dichiarazioni a caldo di Trump, poche ore dopo la telefonata con Tsai Ing-wen: «Non è certo la prima volta che il presidente di Taiwan telefona a quello degli Stati Uniti d’America, la novità è che quest’ultimo ha deciso di rispondere e, soprattutto, di renderlo pubblico. Donald Trump ha osato sfidare Xi Jinping, di questo non possiamo che essere felici».  

Hsu, però, non aveva fatto i conti con il ruolo di "rottura" che Donald Trump potrebbe presto svolgere sia in patria che, di conseguenza, nel resto del mondo. In meno di un mese dall'assunzione ufficiale dell'incarico, una parte rilevante degli schemi tradizionali della politica estera statunitense sembrano costantemente sul punto di essere rimessi in discussione. Scompaginati dall'irruenza (e dall'inesperienza) del nuovo presidente, anche le consuetudini più radicate appaiono sottoposte ad un processo di revisione che non cessa di suscitare scalpore presso gli ambienti più "conservatori" del Paese. Ciò non significa che tutti i vettori internazionali di Washington saranno sconvolti. Anzi, la Casa Bianca, già sottoposta al vaglio di una stampa mainstream ferocemente ostile, farà di tutto per tentare di scongiurare possibili cedimenti nei confronti dei principali competitor mondiali, compresa la Russia, come già dimostrato dall'Ambasciatrice americana all'ONU Nikki Haley, che lo scorso 2 febbraio ha condannato le «azioni aggressive» di Mosca in Ucraina.

Tuttavia è presumibile ritenere che Donald Trump, per sua deformazione personale, conferirà la massima priorità ad altri dossier tra quelli presenti sul tavolo della sua amministrazione. La crisi occupazionale e il pericolo-terrorismo impediscono infatti a Washington di perdere tempo in rischiosi confronti diplomatici a latitudini dove l'impegno militare viene sempre più percepito come inutile e dispendioso dalla popolazione americana. L'insistenza con cui il nuovo presidente degli Stati Uniti sta cercando di convincere il Congresso e l'opinione pubblica della necessità di completare e rafforzare le barriere di separazione con il Messico, oltre alla sospensione dei visti di ingresso per i sette Paesi a maggioranza musulmana colpiti dal suo recente ordine esecutivo, mostra che la sua concezione strategica è fortemente influenzata da una visione confinaria e securitaria che, giustificata o meno, ne restringe fortemente il raggio d'azione primario, limitandolo in gran parte al Continente Nordamericano. Senz'altro, l'incontro avuto di recente con il premier giapponese Shinzo Abe ha ribadito che Washington non abbasserà la guardia sul dossier nucleare nord-coreano e più estesamente sulla tema della sicurezza nella regione Asia-Pacifico, ma a condizione che Tokyo (e Seoul) si faccia carico delle spese difensive in misura maggiore rispetto al passato.

Pare esserci, dunque, ben poco spazio per grandi motivazioni ideali, con o senza doppi fini. Al contrario, tutto sembra girare intorno al controllo e alla razionalizzazione del bilancio, per ridurre la spesa pubblica e diminuire le tasse, secondo il leit-motiv della campagna di Donald Trump: rilanciare la manifattura americana e superare la crisi. Ed in questa direzione, un partner come la Cina, con i suoi investimenti esteri e la sua spinta all'innovazione, è molto più utile di quanto si pensi.

Andrea Fais – Agenzia Stampa Italia

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