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Il ruolo degli Usa in un mondo sempre più multipolare secondo Giacomo Gabellini

(ASI) Il giovane giornalista Giacomo Gabellini ha da pochissimo dato alle stampe "La Parabola – geopolitica dell’unipolarismo statunitense"; lo abbiamo incontrato per parlare del suo testo e dei precari equilibri raggiunti tra le nuove potenze in questo delicato momento storico.


Di recente ha scritto un libro sugli Usa. Cosa rappresentano oggi gli Stati Uniti d’America?


Gli Stati Uniti rappresentano oggi una superpotenza che sta battendo ogni strada percorribile per mantenere intatta la propria supremazia planetaria. Una supremazia che si è dispiegata sul piano geopolitico, economico e militare attraverso (rispettivamente) l’occidentalizzazione del mondo, l’imposizione dell’ideologia liberista imperniata sul libero mercato e la riconfigurazione della NATO. Tali processi hanno favorito il progressivo smantellamento del diritto internazionale scaturito dalla Pace di Westfalia del 1648, il consolidamento di un sistema economico estremamente squilibrato che grazie alla centralità del dollaro ha permesso agli Stati Uniti di importare una quantità esorbitante di merci a scapito del resto del mondo, nonché l’instaurazione di un clima di guerra permanente che dal crollo dell’Unione Sovietica ha portato allo scatenamento di un conflitto dopo l’altro. Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Iraq 2, Libia e forse Siria, Iran, ecc.

Leggendo il suo libro si evince che gli anni ’90 sono stati quelli della svolta per la politica estera a stelle e strisce. Fermo restando che il crollo dell’Urss ha spianato la strada a Washington, quanto ha pesato in quegli anni l’assenza di almeno una nazione europea capace di reggere il confronto?

Le condizioni affinché l’Europa potesse colmare, seppur parzialmente, il vuoto venutosi a creare con la disgregazione del blocco sovietico non mancavano. I metodi di contrasto elaborati da Washington nei confronti dell’Unione Sovietica si basavano essenzialmente sulla "strategia dell’anello dell’anaconda", un piano elaborato dalla Commissione Trilaterale (i cui fondatori sono David Rockefeller, Zbigniew Brzezinski e George Franklin) che mirava a strangolare l’URSS attraverso la costituzione di tre conglomerati geoeconomici: Stati Uniti, regione dell’Asia-Pacifico ed Europa. Nell’ambito di questi piani finalizzati ad istituire nuovi centri direttivi ausiliari di quello statunitense, i centri decisionali di Washington supportarono il processo di aggregazione continentale europea e l’introduzione delle rispettive valute transnazionali che avrebbero dovuto affiancare il dollaro, moneta di riserva internazionale. Il crollo dell’Unione Sovietica, inaspettatamente repentino, ha ridisegnato integralmente il ruolo dell’Unione Europea, che da avamposto atlantico in funzione anti-sovietica minacciava di divenire un reale soggetto geopolitico in grado di accumulare credenziali sufficienti per sfidare il primato statunitense. A quel punto gli Stati Uniti giocarono abilmente le carte a loro disposizione, sfruttando la debolezza e la scarsissima abilità strategica dei leaders europei per fare in modo che il modello di difesa comune europea stabilito a Maastricht nel dicembre del 1991 venisse subordinato ai vincoli dell’Alleanza Atlantica, che nell’aprile del 1999 rese noto il "nuovo concetto strategico". Esso obbliga i paesi membri a «Condurre operazioni di risposta alle crisi non previste dall’articolo 5», il quale limitava l’area giurisdizionale dell’Alleanza all’area settentrionale rispetto al Tropico del Cancro corrispondente ai limiti territoriali dei paesi membri. In forza dell’estensione del suo campo operativo, la NATO è così potuta intervenire in Afghanistan e, più recentemente, in Libia. E sulla scorta del riorientamento strategico statunitense, la potente intercessione di Washington ha fatto in modo che l’Alleanza si allargasse ad est, coinvolgendo anche paesi che avevano fatto parte dell’URSS. Tra il 1999 e il 2007, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Slovacchia, Romania e Slovenia aderirono alla NATO. Il fatto che i parametri della NATO obblighino i paesi membri ad ammodernare i propri arsenali e che Washington ponga come prerequisito indiscutibile di ammissione l’acquisto di armi statunitensi salda il legame dell’Europa con gli Stati Uniti, conferendo a questi ultimi alcuni utili strumenti militari ed economici per confinare il Vecchio Continente al ruolo di "succursale dell’impero". Questo ruolo subordinato dell’Europa ha indubbiamente spianato la strada alla radicale hybris statunitense, foriera di guerre e crisi internazionali. L’assenza dell’Europa ha dunque pesato tantissimo.

In pochi anni si è passati da un mondo unipolare, ad uno multipolare e questo passaggio paradossalmente ha coinciso con il momento di maggior potenza degli Usa; come mai gli analisti statunitensi sempre pronti e attenti nel leggere le dinamiche geopolitiche mondiali hanno permesso che ciò accadesse?

Come ho affermato nella precedente risposta, il crollo dell’Unione Sovietica ha colto alla sprovvista gli strateghi statunitensi. Lo stesso Robert Gates dovette ammettere di aver sottostimato numerosi indicatori e di aver sottovalutato alcuni campanelli d’allarme provenienti da Mosca, in particolare sotto l’egida di Mikhail Gorbaciov. Nonostante il crollo dell’URSS abbia spinto politologi del calibro di Francis Fukuyama a decretare una improbabile "fine della storia" dettata dal trionfo planetario della democrazia imperniata sul libero mercato, in realtà ciò ha scompaginato i piani elaborati dalla Commissione Trilaterale e dato un nuovo impulso all’Asia (l’Europa è rimasta invece in secondo piano). L’esperienza traumatica di Boris El’cin – che radicalizzò le riforme politiche ed economiche avviate da Gorbaciov favorendo gli affari di un nutrito gruppo di "oligarchi"– stava portando alla disintegrazione della Russia, ma l’ascesa al potere di Vladimir Putin ha spezzato questa pericolosa inerzia, riaffermato il ruolo centrale dello Stato e gettato le basi per una futura riscossa del continente asiatico attraverso il riavvicinamento con la Cina. L’invasione dell’Afghanistan e la corsa agli idrocarburi del Mar Caspio rappresenta una contromossa statunitense rispetto ai progetti di integrazione portati avanti da Putin, che stava utilizzando le ricchissime risorse energetiche russe come una micidiale arma diplomatica. Installando la propria presenza nel cuneo territoriale posto tra Russia e Cina, gli Stati Uniti miravano a porre sotto il proprio controllo i corridoi energetici diretti verso i colossali mercati dell’estremo oriente. Favorendo il sorgere delle "rivoluzioni colorate"in paesi come Georgia, Ucraina e Kirghizistan, Washington intendeva invece saldare in chiave anti-russa la fascia territoriale che Nicholas J. Spykman definiva rimland, in modo da capitalizzare l’obiettivo fondamentale indicato già da Halford J. Mackinder, ovvero isolare l’heartland tagliando ogni via di comunicazione con l’esterno. L’ascesa dell’atlantista Yushenko in Ucraina avrebbe potuto compromettere il normale afflusso di gas russo verso l’Europa, spingendo il Vecchio Continente a ricercare vie di rifornimento più sicure. La costruzione del gasdotto Nabucco, patrocinata dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti dietro lo scopo ufficiale di "diversificare le fonti", mirava in realtà proprio a far affluire il gas del Mar Caspio ai mercati europei estromettendo la Russia. La Rivoluzione delle Rose in Georgia ha indubbiamente favorito questo progetto, spazzando via il presidente Shevardnadze – reo di aver intrapreso una forte distensione con Mosca – e favorendo l’ascesa del candidato Mikhail Saakashvili, che si è immediatamente attivato per promuovere la costruzione del fondamentale oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, la conduttura che consente di far affluire sui mercati europei il petrolio azero aggirando a sud la Russia. Putin ha però giocato d’anticipo, intessendo numerose trame diplomatiche e strategiche con alcuni paesi europei non completamente allineati sulla direttrice atlantica (Germania ed Italia) che hanno consentito la costruzione dei due fondamentali gasdotti Nord Stream e South Stream, che assicurano le regolari forniture di gas all’Europa bypassando le turbolenze politiche che affliggono Ucraina e Polonia. La politica propugnata da Putin combinata agli insuccessi delle armate americane nelle sabbie mobili afghane ed irachene – che continuano ad assorbire enormi risorse – e al tracollo economico statunitense hanno limitato significativamente il raggio d’azione degli Stati Uniti, che non dispongono più delle risorse sufficienti per opporsi in maniera decisiva all’instaurazione di un assetto multipolare del mondo, in cui l’Asia sarà chiamata a svolgere un ruolo fondamentale.

Da Reagan a Obama: come è cambiato in tre decenni e cinque presidenti il modo della Casa Bianca di rapportarsi con il resto del mondo?

L’approccio statunitense nei confronti del resto del mondo è rimasto invariato da un secolo a questa parte. Da Woodrow Wilson a Franklin Delano Roosevelt, da Dwight Eisenhower a Ronald Reagan, da Richard Nixon a Barack Obama le presidenze statunitensi sono accomunate dal medesimo obiettivo di fondo, che consiste nella creazione delle condizioni politiche adatte a favorire il controllo statunitense delle risorse mondiali e la conquista dei mercati mondiali da parte delle imprese americane. Ogni interprete incarna le necessità strategiche del momento. George W. Bush è salito al potere all’apice della potenza americana e si è fatto interprete di una politica muscolare che ha strumentalizzato i fatti dell’11 settembre 2001 – sui quali ben poca luce è stata fatta – per legittimare il "grande balzo" in Asia Centrale e in Medio Oriente. Barack Obama è interprete di una linea politica che considera il multipolarismo una prospettiva non più reversibile e tende quindi a promuovere strategie che esaltino la conflittualità tra potenze emergenti (divide et impera). In passato, un presidente incredibilmente sottovalutato (e terribilmente incompreso) come Richard Nixon ripose lo sfacciato oltranzismo anti-sovietico caro invece a numerosi illustri suoi predecessori in favore di una strategia più sofisticata, capace di sfruttare le frizioni che vigevano in seno all’alleanza comunista. Gli Stati Uniti di Nixon e Kissinger riconobbero la Cina di Mao Tze Tung frenando i crescenti aneliti filo-cinesi interni al partito comunista nord-vietnamita e saldando definitivamente il rapporto tra Hanoi e Mosca. Quella strategia politica creò le condizioni feconde per lo scoppio del conflitto sino-vietnamita del 1979 e, soprattutto, per il progressivo isolamento di Mosca che, combinato, con altre cause strutturali, provocò lo sfaldamento dell’alleanza comunista e il crollo dell’Unione Sovietica. Nixon portò il suo (fondamentale) contributo alla "causa" statunitense, come fecero, con risultati altalenanti, suoi più (ingiustamente) celebrati successori come Ronald Reagan e Bill Clinton. Ogni presidente statunitense apporta, in definitiva, alcune piccole variazioni sul medesimo spartito di base, poiché l’obiettivo finale, perseguito da qualsiasi amministrazione, è quello di mantenere la supremazia mondiale statunitense.

Al momento della sua elezione Barack Obama era considerato da tutta la sinistra mondiale l’uomo nuovo, il salvatore del genere umano. Ora che il suo mandato è in scadenza, che bilancio possiamo tracciare dell’operato del primo presidente afro-americano?

Obama è il risultato degli sforzi di make-up profusi dalle oligarchie finanziarie americane (Commissione Trilaterale, Gruppo Bilderberg, ecc.), che intendevano animare di nuova linfa vitale i logori progetti imperiali dal volto "cattivo"incarnati da George W. Bush e dai "falchi" del suo entourage. La sinistra europea, che ha da tempo ripudiato la lezione leniniana che esaltava "l’analisi concreta della situazione reale", ha ignorato ogni interesse in gioco soffermandosi unicamente sul colore delle pelle del candidato democratico e sulla sua altisonante retorica, infarcita di umanitarismo, amore per i poveri e altri vacui concetti analoghi. L’amore incondizionato dichiarato dalle sinistre nei confronti di Obama si è però scontrato con la cruda realtà nel momento in cui il candidato che aveva stigmatizzato gli "eccessi" di Wall Street (la finanza) a scapito di Main Street (l’americano medio) fino a poche settimane prima ha riconfermato il medesimo segretario al tesoro (Henry Paulson) del vituperato Bush e stanziato un pacchetto di finanziamenti agli istituti bancari di gran lunga maggiore rispetto a quello fatto approvare al Congresso da George W. Bush. Rimanendo alla politica interna, Obama ha rinnovato il pacchetto di leggi liberticide meglio noto come "Patriot Act", prolungando a tempo indefinito lo stato di eccezione che vige ininterrottamente negli Sati Uniti dal 2001. Non va inoltre dimenticato il fatto che Obama sia stato insignito del premio Nobel per la Pace a coronamento del «Suo straordinario impegno per rafforzare la diplomazia internazionale e la collaborazione tra i popoli». Questo "impegno" emerge nitidamente dalla linea di politica estera perseguita in questi quattro anni, in cui i droni statunitensi hanno martellato costantemente Somalia, Pakistan e Yemen, provocando decine di migliaia di morti. Stesso "impegno" si evince dalla condotta statunitense in occasione della campagna di Libia, in cui Obama e Hillary Clinton si sono posti alla testa, dopo un breve periodo di indecisione, della "coalizione di volenterosi che – dietro la consueta cortina fumogena di menzogne – hanno devastato il paese, spalancando le porte ai più retrivi circoli senussi, saturi di mujaheddin reduci dagli scenari di guerra afghano, iracheno. Analoga "dedizione" alla causa si nota tuttora, nell’appoggio a tagliagole e mercenari d’ogni sorta che stanno destabilizzando la Siria a suon di attentati e stragi, spianando la strada alla stessa furia "umanitaria"occidentale responsabile dell’aggressione alla Libia. Per "rafforzare la diplomazia internazionale", Barack Obama esorta i propri interlocutori europei a "fare di più" per sostenere l’Alleanza Atlantica, le cui spese sostenute nel 2011 dai 28 stati membri ammontano a 1.038 miliardi di dollari. Una cifra equivalente al 60% della spesa militare mondiale che, integrata con altre voci di carattere militare, copre i due terzi della spesa militare planetaria. Nel corso dell’ultimo decennio, tuttavia, la spesa statunitense è passata dal 50 al 70% circa della spesa complessiva, mentre quella europea è progressivamente calata. In qualità di "strumento di pace", la NATO potenzierà lo scudo anti-missile (proprio come voleva Bush), la cui realizzazione rappresenterebbe «Un obiettivo di lungo periodo di provvedere una protezione completa per i nostri paesi e le nostre popolazioni», come afferma il Segretario Rasmussen. Questa "protezione" consente ai paesi che ne dispongono di lanciare un attacco preventivo (first strike) senza il timore di subire ritorsioni sui propri territori, il che ne fa dello scudo uno strumento offensivo. Non è un caso che la Turchia ospiti un sistema radar e che batterie di missili intercettori siano state dispiegate in Romania e Polonia
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Romania e Polonia si trovano a ridosso dei confini russi, e le rassicurazioni fornite da Washington, secondo cui lo scuso sarebbe stato innalzato per proteggere l’Occidente dai missili iraniani, non hanno mai convinto Mosca, che è corsa ai ripari installando missili Iskander nell’enclave di Kalingrad ed avviando un massiccio piano di ammodernamento delle forze armate russe. Nonostante ciò, in Europa e Stati Uniti si continua a puntare il dito contro "l’arroganza" di Putin, che oserebbe "sfidare" l’Occidente vanificando gli sforzi per il "disarmo nucleare". Evidentemente, la retorica imbevuta di buone intenzioni padroneggiata con impareggiabile destrezza da Obama sta dando i suoi frutti. Ma la realtà è distante anni luce dalle interessatissime raffigurazioni ufficiali fornite dal primo presidente afro-americano nella storia degli Stati Uniti, che sembra avviarsi alla rielezione per manifesta inferiorità degli avversari.

Giacomo Gabellini è redattore di "Eurasia. Rivista di studi geopolitici" e del giornale telematico "Stato & Potenza" (www.statopotenza.eu). Nel giugno 2012 è stato pubblicato il suo saggio "La Parabola. Geopolitica dell’unipolarismo statunitense" per i tipi delle Anteo Edizioni (www. anteoedizioni.eu).

Fabrizio Di Ernesto Agenzia Stampa Italia

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