L’Abruzzo Tradito(re). Riflessioni sul dopo il 10 febbraio

51865978 2035666666551144 4173354798797553664 n(ASI) I risultati delle elezioni regionali del 10 febbraio non possono lasciare indifferenti con la solita giustificazione che la prossima volta la giunta sarà cambiata.

Ma la prossima volta potrebbe essere peggiore. Come d’altronde è sempre stato finora. Si sono avvicendate giunte regionali dai vari e contrastanti colori politici. Sempre peggiori. Se l’essenza della politica, come sostiene Maurice Duverger, è l’ambivalenza, i nostri politici non sono che Giano bifronte. C’è, storicamente, un Abruzzo bifronte: l’Abruzzo tradito dagli abruzzesi e l’Abruzzo che tradisce. La conquista del potere come mezzo più efficace per ottenere vantaggi per sé, per il proprio gruppo, il proprio partito, la propria coalizione. La storia della regione Abruzzo è stata finora storia di fallimenti, storia di progetti non realizzati, di lotte intestine. Un’istituzione che nasce dagli scontri campanilistici tra L’Aquila e Pescara. Un Abruzzo che esce dal dramma della seconda guerra mondiale, battendosi per la libertà del proprio territorio e per quello dell’Italia centro-settentrionale. Un Abruzzo, dove nasce nel dicembre 1943 la Brigata Maiella. Abruzzesi che lottano e muoiono per la libertà di tutti. Per questo Presidenti della Repubblica come Carlo Azeglio Ciampi e Sergio Mattarella hanno ringraziato gli abruzzesi per la loro dedizione ai valori della libertà e della solidarietà.

Le vicende abruzzesi durante la seconda guerra mondiale sono così terribili che solo a ricordarle si resta frastornati. Subito dopo l’8 settembre, nell’ottobre del 1943, si verifica la partenza di un treno di 400 detenuti dall’abbazia-carcere di Santo Spirito al Morrone al campo di sterminio di Dachau, con la collaborazione di fascisti e delle autorità locali. Sul treno furono obbligati a salire anche nove cittadini di Roccacasale, dei quali cinque giovani e due di loro subito assassinati. Nel mese di novembre 1943 si verifica l’eccidio di Pietransieri con i 128 trucidati dai nazisti, donne e bambini, e poi quello di Gessopalena nel gennaio 1944 con 41 vittime innocenti. E ancora nell’aquilano: i giovani 9 Martiri fucilati all’Aquila, alle Casermette, le stragi di Onna, Filetto, la spedizione e la morte nei campi di sterminio di Annita Santomarroni, una povera donna che aveva sfamato i prigionieri di guerra, ritenendoli “cristiani come me”. Senza dimenticare le centinaia e quasi migliaia di vittime sotto i numerosi bombardamenti che colpirono per la prima volta in Abruzzo il 27 agosto, venerdì, la stazione di Sulmona, col grido delle migliaia di cittadini “Hanno zappato la stazione” e subito dopo Pescara e i tanti centri urbani abruzzesi fino alla partenza dei tedeschi nel giugno 1944.

In Abruzzo, alla presenza di tre grandi campi di concentramento (Chieti, Sulmona, Avezzano), con un totale di circa diecimila prigionieri, si assistette ad una vera comunione di cuori e di beni, dividendo insieme “il pane che non c’era”. Gli ex-nemici non furono più tali, ma persone umane da accogliere, sfamare, nascondere, aiutare nella fuga. Una storia così vera ed esemplare da diventare modello di convivenza. Una resistenza definita dagli storici “Resistenza Umanitaria”, con la centralità pura e semplice dell’Uomo in quanto tale. E proprio in difesa di un simile principio, migliaia di persone comuni, povere e spesso analfabete, hanno sacrificato perfino la vita per realizzare questo tipo di amore disinteressato. È il caso di Michele Del Greco, pastore di Anversa degli Abruzzi, che viene fucilato al carcere di Badia di Sulmona il 22 dicembre 1943, confessando al parroco che lo assisteva prima di essere fucilato: “Sa perché mi ritrovo in questa situazione? Perché ho fatto quello che mi avete insegnato: dar da mangiare agli affamati”. E come Michele Del Greco, numerose persone, uomini e donne, hanno posto in pericolo la loro vita, pur di aiutare quelli che lo chiedevano. Una lunga lista: Maria Di Marzio di Campo di Giove, Elisa Silvestri di Introdacqua, Iride Imperoli Colaprete di Sulmona, le vecchiette di Scanno, la gente di Borgo Pacentrano a Sulmona.

Una storia spesso sconosciuta, ma densa di insegnamenti. Una vera lezione di vita. Oggi con le elezioni del 10 febbraio, in cui politica e uomini emergono ignorando o addirittura misconoscendo queste storie, l’Abruzzo e gli abruzzesi si trovano di fronte a situazioni nuove e pericolose. Non più l’amore a base dei rapporti, ma l’individualismo, la sopraffazione a vari livelli, da quello economico a quello ideologico. Un ritorno al passato. Ad un conflitto storico tra bene e male, tra nazi-fascisti e patrioti della Maiella. Una specie di suicidio di massa. Mai come in questa situazione valgono le parole di George Santayana scritte sulla porta di Auschwitz: “Se non si ricorda il passato, si rischia di ripeterlo”.

In questo odierno panorama socio-politico italiano, la realtà abruzzese sembra intervenire a gambe tese delineando un futuro ambiguo ed enigmatico: l’eterogeneità tra maggioranza e minoranza, l’impossibile dialogo tra la politica di un governatore appartenente ad uno schieramento di destra per storia e scelta personale, sostenuta dall’egemonia della Lega, notoriamente attestata su posizioni falsamente rivoluzionarie, ma conservatrici e reazionarie e la linea politica della minoranza, costretta ad una seria e pacifica opposizione, ricercata a tutti i costi. Un fascismo che rinasce senza nome, ma che resta sempre identico. D’altronde, per dirla con Wilhelm Reich, il fascismo è soprattutto una concezione della vita e del mondo, come giustamente affermava in “Psicologia di massa del fascismo”. Un libro pubblicato nel 1933 e sempre di grande attualità, perché non condanna aprioristicamente la realtà, ma cerca di interpretarla, di analizzarla, di spiegarne le motivazioni profonde. Per Reich “il fascismo, nella sua forma più pura, è la somma di tutte le reazioni irrazionali del carattere umano”. Basta osservare gli atteggiamenti dei piccoli capi della politica italiana per capire che si tratta di omuncoli, di copie false di leader del passato.

Un quadro oggettivamente difficile, a meno che non nasca la novità di accettarsi semplicemente come uomini. Uomini senza pregiudizi, aperti, liberi in nome di un vero bene comune. Purtroppo nei tempi recenti e in quelli attuali, in Italia, si sta pagando lo scotto procurato da quella serie infinita di personaggi che non intendono ritirarsi dalla vita politica e vivono come salme mummificate, ostacolando il rinnovamento della politica e della democrazia. Forse è un’utopia immaginare un futuro dal volto umano, ma è in atto un mutamento dei tempi che riguarda tutti. Tutti siamo inseriti in un contesto in continua evoluzione. Restano, al di là e oltre il tempo, come un programma universale di vita le parole di Alba De Céspedes, nell’Abruzzo dell’autunno 1943: «Io non so quale sentimento mi augurerei di veder rinascere più prontamente in noi; ma credo la dignità… Poiché la nostra dignità - la personale dignità di ogni individuo e, di conseguenza, la dignità di un popolo - era scomparsa nell’accettare la dittatura…»

E ricordando l’accoglienza della gente abruzzese, scrive: «Entravamo nelle vostre case timidamente: un fuggiasco, un partigiano, è un oggetto ingombrante, un carico di rischi e di compromissioni. Ma voi neppure accennavate a timore o prudenza: subito le vostre donne asciugavano i nostri panni al fuoco, ci avvolgevano nelle loro coperte, rammendavano le nostre calze logore, gettavano un’altra manata di polenta nel paiolo. […] Del resto attorno al vostro fuoco già parecchie persone sedevano e alcune stavano lì da molti giorni. Erano italiani, per lo più: ma non c’era bisogno di passaporto per entrare in casa vostra, né valevano le leggi per la nazionalità e la razza. C’erano inglesi, romeni, sloveni, polacchi, voi non intendevate il loro linguaggio ma ciò non era necessario; che avessero bisogno di aiuto lo capivate lo stesso. Che cosa non vi dobbiamo, cara gente d’Abruzzo? Ci cedevate i vostri letti migliori, le vesti, gratis, se non avevamo denaro».

Mauro Tedeschini, nel libro “Benedetti Abruzzesi” scrive alla conclusione: “Quel che ti dà speranza dell’Abruzzo è che basterebbe così poco per farne veramente la Svizzera d’Italia… Insomma ce la farà l’Abruzzo? Io, nel mio piccolo, faccio il tifo, perché questo pezzo d’Italia che vive all’ombra della Majella e del Gran Sasso mi è rimasto nel cuore”. Ma, alla luce della ricerca scientifica e delle riflessioni del maggiore storico a livello mondiale, Yuval Noah Harari, nei suoi libri venduti a milioni di copie, si analizza la novità del mondo in cui viviamo, sotto la gestione dell’algoritmo. Un mondo che va verso la globalizzazione, rafforzando la pace mondiale, anche se la pace non è semplice assenza di guerra, ma comporta l’implausibilità della guerra. Cosa che in gran parte oggi è stata realizzata. Tuttavia, sostiene Harari, per evitare che la democrazia vada verso il declino, bisognerebbe reinventarla in una forma completamente nuova, evitando il rischio di finire nella “dittatura digitale”. Per questo l’uomo dovrà appellarsi all’intelligenza in quanto capacità di risolvere i problemi e alla coscienza in quanto capacità di provare sentimenti.

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