Recensione di Amleto a Scampia

PuntaCorsaraLuciaBaldini(ASI) Prato. Dopo tre anni di tournée, arriva al Fabbricone il primo grande successo di Punta Corsara. Cosa aggiungere a uno spettacolo del quale tutti hanno già scritto tutto?

Recensire un gioiello di icastica bellezza come Hamlet Travestie è difficile: si rischia di scivolare nel plauso di maniera, nell’ovvietà ritrita. Partiamo allora da alcuni spunti sul perché il lavoro di Punta Corsara convince, nella sua semplicità minimale, nella sua mancanza di tutti quegli orpelli di un teatro di tradizione che stenta a morire sui palchi all’italiana, che gran parte del pubblico crede l’unico rappresentante della migliore prosa e che, al contrario, rende stantio il testo più contemporaneo, museificando il più vitale tra gli autori e ammorbando i pomeriggi domenicali degli abbonati teatrali.
Punta Corsara nasce dalla non-scuola di Renzo Martinelli in quel di Scampia. E il lavoro della Compagnia napoletana mostra i frutti di quelle radici che affondano profondamente nel loro humus creativo. La trasposizione di Amleto, infatti, è una messa in vita e non una messa in scena, parafrasando Martinelli - che sembra partire da un’improvvisazione che si confronta con la contemporaneità, per poi arrivare al testo e al personaggio così da permettere all’attore di esprimere necessità autentiche, attraverso una maschera che non cela bensì rivela, non mummifica bensì manifesta la matrice psicologica (i sogni e i bisogni) che accomuna l’essere umano rinascimentale o della Grecia Antica con quello tecnologicamente avanzato, eppure sempre edipico, che chatta sul suo smartphone. La trasposizione, in questo caso, non è quindi autoreferenziale, non è posticcia attualizzazione per far abboccare un pubblico ormai avvezzo al linguaggio e ai tempi televisivi, ma risale all’immaginario collettivo recuperandone simboli e concetti. Non a caso, Punta Corsara evidenzia come elemento originale del testo shakespeariano e del proprio Hamlet Travestie il teatro nel teatro, ovvero l’uso della finzione scenica quale mezzo per svelare le origini del dramma che, in entrambi i casi, è motivato da interessi economici e di potere: se lo zio di Amleto uccide il fratello per impossessarsi del suo regno, a Scampia è il camorrista e strozzino che uccide il debitore per costringere la sua famiglia ad abbandonare casa e attività (un banco nei mercati ambulanti). Il parallelo è stringente e la messa in vita funziona.
Vale forse la pena sottolineare anche come la stessa Napoli e il suo dialetto incarnino alla perfezione quel circo-mondo che Shakespeare ricostruiva attraverso il suo linguaggio insieme alto e basso, eufuistico e scurrile, cortese e popolano. Nonostante il pubblico degli abbonati sia avvezzo alle ricostruzioni ottocentesche e sfarzose dei drammi di Shakespeare, sul palco elisabettiano bastavano pochi oggetti simbolici a ricreare palazzi e isole perdute, perché era la sola forza della parola a disegnare universi fantastici e di senso di fronte agli occhi degli spettatori. Punta Corsara fa lo stesso: una decina di panche ha la capacità di trasformarsi in tomba e palcoscenico, prigione e lungomare. Il dialetto napoletano, con la sua poeticità iconoclasta; con la sua storia teatrale che lo ha eletto a lingua, in un certo senso, acquisita in tutta Italia; con quella musicalità che si sposa stranamente con il blank verse (non a caso, l’anno scorso, ha debuttato Mal’essere, un Amleto tradotto da sei rapper partenopei), riesce a dipingere con pennellate veloci e vivide un’intera scenografia animata e vibrante, che non può essere che la stessa Napoli (palcoscenico a scena aperta, come dimostra anche l’ultimo film di Ferzan Özpetek).
Plauso dovuto, quindi, alla necessità creativa di Punta Corsara, e a quel teatro che, come quello greco o della Russia rivoluzionaria o dello stesso Shakespeare, rispecchiava la propria società e i propri tempi, scendendo dagli empirei per sporcarsi le mani: “Prego,/ scendete,/ lavorate un po’ con noi./ E per non lasciare gli angeli con le mani in mano,/ stampate/ in mezzo alle stelle,/ ché si ficchi bene negli occhi e nelle orecchie:/ chi non lavora non mangia”. (Dopo i prelevamenti, Vladimir Majakovsij, 1922, traduzione di G. Crino e M. Socrate).

Simona M. Frigerio - Agenzia Stampa Italia

 

Fonte foto: copyright free, fornita dall'ufficio stampa del teatro. Credits: Foto di Lucia Baldini.

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