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The way back, un film differente

(ASI) Cimema. 1940, Russia Sovietica. Janusz, soldato polacco, viene condannato a 20 anni di lavori forzati in un gulag siberiano. La moglie, probabilmente sottoposta a torture confessa azioni di spionaggio del marito contro il Compagno Stalin. Per lui, inizia l'inferno. Il film si apre così, per giungere immediatamente in un gulag siberiano in pieno inverno. Le condizioni di vita sono bestiali.

Torture, sevizie, soprusi tra gli stessi prigionieri sono all'ordine del giorno. Ed è questo che fa scattare in Janusz il senso della libertà: doveva uscire, per rivedere la moglie, ancora incapace di comprendere come la donna che amava lo avesse tradito.

Il nucleo dei prigionieri del Gulag è quanto mai eterogeneo: l'ex attore dissidente Khabarov, l'ingegnere americano Smith, emigrato con la sua famiglia in fuga dalla depressione del 1929, il cinico criminale Valka, il cuoco artista Tomasz, il compatriota Kazic, il prete lettone Voss e lo jugoslavo Zoran. Tutti nemici del popolo, tutti internati nel Gulag, senza speranze.

Sarà proprio Khabarov che alimenterà la voglia di evasione in Janusz. E proprio l'attore sarà il primo a tirarsi indietro, quando la fuga era pronta.

Staccando la corrente del generatore del gulag, tagliando il filo spinato, nel bel mezzo di una bufera di neve, 7 persone partono per una marcia infinita. E' proprio qui che si situa la grandezza del piano di Janusz: dove fuggire. Il ragionamento è chiaro: in Europa v'erano russi e tedeschi. Ad est sempre i russi comunisti. L'unica via è a sud. Tuttavia, la posizione del lager è in Siberia, il Lago Bajkal è a sei settimane di cammino. Si poteva tentare una simile avventura?

Ebbene sì, sette persone partono nel bel mezzo di una bufera di neve, per raggiungere una meta sconosciuta: la Cina? La Mongolia? Nessuno lo poteva ancora immaginare.

Iniziava l'odissea infinita. Janusz traghetterà il gruppo tra le montagne meridionali della Russia, incontrando lungo il cammino una donna polacca che li stava seguendo, Irena, in fuga anch'ella da una fattoria collettiva. Cominciano i primi morti per il freddo. E' quanto meglio specificare che il gruppo è a piedi, clandestino, deve mangiare quel poco che trova nel suo cammino (salvo qualche provvista presa prima di partire dal Gulag), e deve subire le angherie di un tempo inclemente.

Raggiunto il Bajkal, approderanno in Mongolia. E quest'ultima riserverà una brutta sorpresa al gruppo “pellegrino”. Difatti, seppur a confine passato, troveranno un'immagine di Stalin e del Partito Comunista Locale. Non essendo ancora liberi, e visitando un tempio buddista profanato, devono scegliere di proseguire la marcia, nel deserto mongolo, senz'acqua, cibo, per andare avanti, verso il Tibet, l'unica via di salvezza, attraversando l'Himalaya. Due persone si spegneranno, bruciate dal sole, con i piedi gonfi e disidratate: Irena e l'artista Tomasz, i cui disegni avevano accompagnato il gruppo sinora. Solo un'oasi, la carne di un serpente e un'impossibile forza di volontà farà giungere i superstiti dapprima da dei monaci tibetani a Lhasa, in Tibet, a 3650 metri di altitudine e poi in India, per percorrere in totale 6500 km. Il film si conclude con il ritorno di Janusz, nella sua Polonia. Riabbraccerà la moglie, ma non subito. Dovrà attendere il 1989, ossia il crollo del comunismo. Il loro incontro sarà come quello di quando lui, soldato polacco, rientrava a casa in divisa. Solare e sincero, in una “religione della libertà”.

Il regista Peter Weir ha deciso di portare sul grande schermo la storia vera ma romanzata, tratteggiata da Slavomir Rawicz nell'opera Tra noi e la libertà. Un film fortemente anticomunista, ricco di passione, per squarciare l'omertà sulla realtà dei Gulag. Così, oltre ad avere avuto una forte opera di Aleksandr Isaevič Solženicyn quale l'Arcipelago Gulag, si può ora visionare un film di grande impatto mediatico. Restando increduli di fronte a quella marcia di 6500 km pur di divenire uomini liberi.

Valentino Quintana per Agenzia Stampa Italia

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